L’incredibile storia vera di come la musica ha ridato speranza ai prigionieri nei campi di concentramento nazisti
In una fredda notte di ottobre del 1942, le guardie del campo di concentramento di Sachsenhausen sorprendono un gruppo di prigionieri ebrei radunati in segreto. Sono i membri di un coro clandestino, che stanno provando il repertorio guidati dal direttore d’orchestra Rosebery d’Arguto.
Molti di loro vengono giustiziati sul momento, e quelli che sopravvivono alla rappresaglia sono deportati ad Auschwitz-Birkenau di lì a poche settimane. L’unico che riesce a salvarsi è Aleksander Kulisiewicz, un musicista polacco dotato di una singolare e incredibile memoria. È a lui che Rosebery, prima di morire, affida una missione importantissima: usare il suo dono per salvare il patrimonio musicale delle vittime dei campi nazisti. Aleks sopravvive in effetti all’Olocausto, e tiene fede alla promessa fatta all’amico: dopo la guerra torna in Polonia e inizia a raccogliere un impressionante archivio musicale che porta in giro per tutto il mondo. Solo attraverso la preziosa testimonianza di quest’uomo oggi sappiamo che i prigionieri dei campi di concentramento composero sinfonie, organizzarono cori clandestini, arrangiarono le musiche di illustri compositori riunendosi regolarmente e spesso a rischio della vita. La musica permise loro di resistere e restare umani, pur costretti a vivere nelle condizioni più brutali che si possano immaginare.
Una commovente storia vera
«Struggente... Una preziosa testimonianza sul potere di guarigione dell’arte.»
Publishers Weekly
«La storia edificante della musica che ci arriva dalle profondità di uno dei periodi più tragici del XX secolo... Un nuovo significativo capitolo della storia dell’Olocausto.»
Kirkus Reviews
«Eyre è un narratore abile, dallo stile limpido, che porta i suoi personaggi al centro della scena, in disparte, e poi di nuovo indietro. Capace di ordire una narrazione avvincente e dettagliata mettendo in luce le dinamiche interne della struttura di potere del campo di concentramento.»
The Economist